Archive for the ‘Scrittura’ Category

h1

Il Gatto della Strega, nonostante tutto.

15 luglio 2016

In giornate come questa si ha il cuore pesante.
Notizie terribili giungono ogni giorno da tutto il mondo.
Ogni mattina ci svegliamo e abbiamo timore di leggere gli ultimi avvenimenti.

Sono stata in dubbio se pubblicare questo post oggi, quando la nostra attenzione è ancora diretta in Puglia, a Dacca, a Nizza…

Ma poi ho pensato, no.
Questa è la mia vita, queste sono le mie creazioni, non mi fermo.
Io dipingo, io scrivo, io leggo, io disegno.
Io ho paura, io sono triste, io ho le immagini degli attentati attaccate con puntine da disegno in fondo agli occhi.

Questo è un racconto lungo, di fantasia, popolato da streghe, gatti parlanti, persone con poteri magici, una popolazione in esilio con un nemico da combattere.
Il Gatto della Strega, ve lo presento oggi, nonostante tutto.

Il Gatto della Strega_

h1

La casa delle donne che corrono con i lupi: seconda parte

28 giugno 2016

“Scusi – le dico –  è solo che mi ha colpito il cartello…”

“Oh, prende il nome da un libro, l’autrice si chiama Clarissa Pinkola Estes e si intitola proprio ‘Donne che corrono con i lupi’. Parla del recupero del contatto tra la donna e la sua parte più istintiva, più selvaggia, più spontanea. La donna che corre con i lupi è la donna che ha un buon rapporto con sé stessa”.

Cerco di sbirciare oltre il cancello e domando alla signora “Di che posto si tratta?”

“Questa è una casa dove diamo rifugio a tutte le donne bisognose di aiuto. Ci sono ospiti con le problematiche più diverse… Vuoi entrare? Ti offro un caffè”

“Veramente non vorrei disturbare – mi affretto a rispondere – dovrei tornare a casa”. Il telefono squilla nella mia borsa, sul display lampeggia il numero di mio marito. Mi domanda infastidito dove io sia finita, gli rispondo che ho fatto una deviazione imprevista e che sarò presto di ritorno a casa.

La signora, che si era educatamente allontanata per lasciarmi un po’ di privacy durante la conversazione, sta staccando delle foglie secche dalla siepe. C’è una calma nei suoi gesti, e grande serenità nel suo sguardo.

“Credo di avere cambiato idea su quel caffè…” le dico.

Lei mi sorride, apre il cancello e mi invita con un gesto della mano a entrare: “Prego, benvenuta nella casa delle donne che corrono con i lupi”

Mi ritrovo in un ampio giardino ben curato, con aiuole delimitate da sassi bianchi e piante e cespugli di varie forme e colori all’interno. Seguiamo un sentiero lastricato di pietre larghe e arriviamo nei pressi di una casa a due piani, in mattoni rossi.

La mia ospite osserva la casa e mi racconta: “è una costruzione che ho ereditato anni fa da una zia. Dopo la prematura scomparsa di mia sorella, ho deciso che la missione della mia vita sarebbe stata quella di aiutare le donne che hanno bisogno di ritrovarsi, ricostruirsi dopo esperienze traumatiche. Credo fortemente nel potere terapeutico dell’arte, della scrittura, della pittura e della natura.”

Mi giro verso il giardino e ammiro la cura con cui sono disposte le piante e la tranquillità che questo posto emana. Cammino verso una grande quercia, dai suoi rami ancora stanno cadendo alcune foglie secche. Poggio una mano sul suo tronco ruvido e nodoso.

“Non limitarti a toccarlo – mi dice la signora – abbraccialo.”

Mi giro un po’ stupita. Abbracciarlo?

“Si, circonda tutto il tronco con le braccia. Senti l’energia che scorre dentro di lui, chiudi gli occhi, prova.”

Mi volto verso la quercia e poggio anche l’altra mano sul suo tronco. Lentamente, faccio scorrere le mani verso l’esterno e chiudo gli occhi. La superficie ruvida mi gratta i palmi e provo a concentrarmi su questa sensazione, man mano che le mani si allontanano, avvicino il viso al tronco. Respiro l’odore che emana e poggio una guancia su questa superficie ruvida. Stringo forte e resto un attimo in questa posizione, e mi sembra di essere un tutt’uno con lui. I miei piedi penetrano nel terreno e diventano radici, le mie braccia proseguono nel tronco e diventano rami, dalle mie dita nascono germogli e la mia mente sale verso il cielo.

Mi stacco dall’albero colpita dal fiume di sensazioni che mi ha travolta.

“Ma è stupefacente, non lo avrei mai detto!” confesso alla signora.

Lei sorride “le cose più semplici sono spesso quelle che riservano sorprese inaspettate”

Mi guardo intorno sempre più incuriosita, voglio scoprire quali altre sorprese riserva questo posto.

Su una panchina verso la siepe del giardino c’è una donna che legge. Incurante del freddo, rifugiata in un ampio giaccone e con un cappello di lana sulla testa è immersa nelle pagine del libro che tiene tra le mani.

La mia ospite riprende a camminare e mi spiega: “La casa è circondata da questo grande giardino e dal retro parte un sentiero che attraversa la campagna. Abbiamo un piccolo orto del quale ci occupiamo insieme alle nostre ospiti. Il lavoro nell’orto è una ginnastica che fa bene al corpo ma anche un balsamo per l’anima, grazie al contatto con la terra e la sua generosità nel donarci abbondanti frutti. Frutta e verdura che consumiamo nella mensa viene da qui, le donne qui si cibano di ciò che loro stesse contribuiscono a coltivare e questo dà una soddisfazione sconosciuta a chi non ha mai provato. Non è solo salutare per il fisico il consumo di alimenti autoprodotti, senza pesticidi, consumati appena raccolti: è un ciclo che si consuma sotto i nostri occhi, ti fa riscoprire il potere del dare la vita.”

Eccolo qui l’orto di cui parla la signora: nonostante sia inverno nelle file ordinate di terra lavorata ci sono cavoli, broccoli e insalata. Una ragazza sta cogliendo della bieta: ha un grande livido sulla guancia e quando ci vede si rigira dandoci le spalle.

La signora la saluta, le poggia una mano sulla spalla e si china vicino a lei. Scambiano qualche parola sotto voce, poi la signora si rialza e viene verso di me. Insieme torniamo verso la casa.

Non chiedo nulla sulla ragazza nell’orto. Posso solo immaginare che non abbia una storia piacevole alle spalle. Mi auguro con tutto il cuore che le ferite sul suo corpo e quelle nel suo spirito guariscano in fretta, magari con l’aiuto di questa signora gentile.

Siamo arrivate davanti alla casa, la signora apre la porta principale e io la seguo all’interno, dove mi accoglie una piacevole tepore. Lasciamo le giacche su un appendiabiti all’entrata: noto che su questo ingresso  ci sono tre porte, la signora fa gli onori di casa.

Apre la prima porta alla nostra sinistra e mi mostra una grande stanza con un enorme tavolo al centro, armadi e scaffali alle pareti. Ci sono dei cavalletti, tele e colori, materiali di ogni tipo sui vari ripiani, piccole statue creta sul tavolo.

“Questo è il nostro laboratorio: qui le mie ospiti possono dare libero sfogo alla loro creatività. Possono farlo da sole o in gruppo, come preferiscono. Più volte a settimana tengo io stessa delle lezioni su varie tecniche come la pittura, il decoupage, la modellazione della creta, oppure viene qualche mia amica a insegnarci. Questa stanza resta sempre aperta, a disposizione di chi la vuole usare. La creatività non ha orari, si può avere bisogno di esprimersi in qualunque momento. E l’espressione di sé è una ottima terapia”.

Usciamo dal laboratorio e la signora si avvia verso la seconda porta: è una biblioteca con altissime librerie lungo tutti i muri piene zeppe di libri. Due comode poltrone al centro della stanza dove fermarsi a leggere il libro scelto.

“E che dire della lettura? Spesso ci dimentichiamo del piacere che si trae dal prendersi dei minuti solo per sé, per dedicarsi a questa attività in completa solitudine. Leggere significa viaggiare stando fermi, non trovi? E le mie ospiti spesso hanno bisogno di evasione. A volte scorrendo i volumi su questi scaffali capita che il nostro sguardo venga attirato da un libro che ci sta in qualche modo chiamando. Vuoi provare?”

Mi avvicino a un ripiano della libreria e poggio una mano sui dorsi dei libri: chiudo gli occhi e faccio qualche passo sentendo le copertine che scorrono sotto alle dita. Mi fermo, apro gli occhi e guardo il titolo del libro su cui si è fermato il mio indice. Con stupore vedo che si tratta di “Donne che corrono con i lupi”.

“Prendilo, quel libro è tutta la mattina che ti stava aspettando” mi dice la signora sorridendo soddisfatta.

Non riesco a credere a questa coincidenza. Con scetticismo osservo gli altri libri intorno per controllare di non essere incappata in uno scaffale con decine di copie dello stesso libro, dove non era possibile trovarne uno diverso. Ma non è così: i titoli si alternano spaziando tra gli argomenti più disparati.

“Lo acquisterò una volta tornata a casa – dico alla mia ospite – questo è tuo…”

Ma lei insiste: “Davvero, prendilo. Me lo restituirai quando lo avrai terminato. E mi raccomando, scrivi sulla prima pagina il tuo nome e la data, in modo da lasciare il segno del tuo passaggio.”

Apro il libro e sulla prima pagina vedo una decina di nomi e date, scritti in diversi colori e con diverse calligrafie, testimonianze di altre mani che hanno sfogliato quelle pagine, altri occhi che hanno letto quelle parole, altre vite che sono passate da lì, con cui sento di avere in comune qualcosa, fosse anche solo la necessità di una ricerca.

La ringrazio e stringo il libro al petto, insieme usciamo dalla stanza.

Una scala in fondo porta al piano superiore: “sopra ci sono le camere da letto, vieni che ti preparo il caffè, o un the se preferisci”

La terza porta dà su una sala da pranzo: c’è un lungo tavolo con una dozzina di sedie intorno, sul fondo una porta che dà sulla cucina.

“Anche della cucina ci occupiamo tutte insieme sai? Ognuna secondo le proprie attitudini: c’è chi è brava a cucinare, chi preferisce aiutare nell’apparecchiare o sparecchiare, chi trova più rilassante lavare i piatti. C’è chi non ama svolgere nessuna di queste attività e allora si dedica più all’orto o ad altro. Ciascuna comunque dà il suo contributo alle attività quotidiane della casa.”

In cucina c’è un piccolo tavolino e due sedie: la signora mi fa cenno di accomodarmi.

“Cosa preferisci, un thè o un caffè?”

Poggia sul tavolo due tazze, una scatola con piccoli scomparti e all’interno una grande varietà di infusi di ogni genere. Poi prende anche una caffettiera, un vasetto di miele e un piatto con dei biscotti.

“con questa grande scelta di infusi quasi quasi scelgo il thè”.

Studio la selezione di bustine mentre la signora mette l’acqua nel bollitore. Non mi fa alcuna domanda, mi ha accolta nella sua casa e mi raccontato la sua attività. Scelgo una bustina di thè allo zenzero e arancia e sento la necessità di raccontarle qualcosa di me. Il cellulare squilla di nuovo nella borsa ma questa volta lo ignoro. Ho bisogno di concentrarmi su me stessa. La passeggiata mi ha rigenerato, l’aria fredda  mi ha leggermente intorpidito le mani e la pelle e ora questo calore è piacevolmente rilassante.

Racconto alla signora la mia mattinata, il periodo un po’ faticoso che sto attraversando, la vita che conduco e le sensazioni che mi hanno spinto a questa breve fuga. Scopro che confidarsi con una persona estranea è liberatorio, riesco a raccontarle quello che ho provato senza filtri, senza la paura di essere giudicata.

“Ti piace scrivere?” mi chiede a un certo punto.

Senza capire bene il senso di quella domanda le rispondo che ero molto brava nei temi al liceo, che da piccola tenevo un diario e qualche volta scrivo su un blog che ho aperto qualche anno fa.

“Alle mie ospiti chiedo di tenere un diario durante il periodo in cui soggiornano qui, e se vogliono, di continuarlo a casa. il diario è ovviamente strettamente personale e loro non devono avere alcuna censura nello scrivere. Per questo consiglio loro di scrivere la mattina appena sveglie, in quel momento in cui siamo ancora un po’ addormentate e quindi più sincere. Poi di scrivere anche la sera prima di coricarsi per raccontare ed essere consapevoli delle proprie emozioni e dei propri pensieri. Spesso siamo vittima di emozioni cui non sappiamo dare un nome. Chiedo loro “Cosa provi ora?” e loro non sanno rispondermi. Ti capita mai di non sapere cosa stai provando? O meglio, di non saper dare un nome preciso alle tue emozioni?”

Mentre la ascolto provo una profonda ammirazione per questa donna e il lavoro che fa. Si vede che mette una grandissima passione nel suo progetto e sono sicura che riesce a trasmettere questo entusiasmo anche alle donne che ospita.

Lei mi guarda con dolcezza “sei una donna fortunata sai? Hai saputo individuare e analizzare il momento che stavi vivendo e hai avuto il coraggio di chiedere aiuto. Non lo hai ancora fatto a parole ma lo hai fatto con questo gesto e questo è un buon inizio. Qui da me ci sono donne che non hanno avuto il tuo stesso coraggio e sono state consumate dai loro stessi sentimenti.”

Mi prende le mani tra le sue: “Non avere paura di farti aiutare, non è una sconfitta. La vera sconfitta sarebbe negarsi un aiuto per orgoglio e poi soccombere sotto il peso dei compiti che ti sei data, delle aspettative che gli altri hanno nei tuoi confronti.”

Ho un nodo alla gola, nelle ultime ore sono venuti a galla pensieri ed emozioni che sembrano travolgermi. E questa donna che mi conosce da soli cinque minuti sembra avermi letto dentro.

“Promettimi che tornerai a trovarmi, per dirmi come stai: vieni a prendere un caffè e fare due chiacchiere con me. Sono sicura che avrai tante cose da raccontarmi, tante novità, te lo leggo negli occhi, comincerai anche tu a correre con i lupi”

Quando salgo sul treno, una nuova energia mi scorre nelle vene. Oggi ho compiuto un piccolo passo verso una maggiore consapevolezza di me stessa, ho avuto bisogno di fare questa breve fuga per guardarmi un po’ dentro. Sono solo all’inizio, so di avere molta strada ancora da fare. Ma almeno so in che direzione devo andare e sento che è già qualcosa. Non sarà facile, non sarà breve, ma l’importante è partire. Devo riscoprire la sincerità, principalmente con me stessa in modo da poterlo essere anche con gli altri. Voglio ritrovare la mia forma, la mia dimensione, la mia strada.

Lo farò da sola? Mi servirà un aiuto? Questo ancora non lo so, sicuramente mi servirà il supporto della mia famiglia. Non mi devo vergognare di chiedere aiuto, continuando a soffocare le proprie debolezze si rischia di esplodere.

Sistemerò il mio curriculum e domattina mi metterò su internet alla ricerca di un lavoro part time: non voglio rinunciare ai pomeriggi con i miei figli ma ho anche bisogno di avere una mia collocazione fuori dalle mura domestiche.

Mando un messaggio a mio padre “Questa sera ti porto i bambini, per te va bene? Vorrei andare a cena fuori con mio marito”

Recuperare del tempo per me, recuperare del tempo per noi. Aspetto la risposta affermativa prima di mandare un messaggio anche a mio marito: “Tra dieci minuti sono a casa. Tu preparati, questa sera ti invito a cena fuori”

THE END

h1

La casa delle donne che corrono con i lupi-prima parte

27 giugno 2016

Questo racconto è dedicato a tutte le donne che almeno una volta nella vita si sono sentite inadeguate, incomprese, spaesate, senza aria, sul punto di esplodere.

Tra un po’ esplodo.

E’ una terrificante giornata delle vacanze natalizie. Una di quelle con i bambini che litigano da ore, la pioggia incessante che rende impossibile ogni uscita, il marito impegnato in un non meglio precisato lavoro nel suo studio, la casa che urla vendetta per il disordine imperante, dolori mestruali che ti impediscono di  concentrarsi su alcunché e il telefono che squilla.

E’ insomma un tranquillo giorno delle vacanze di natale, o almeno così dovrebbe essere, tranquillo.
Da un po’ di anni oramai per me le giornate di vacanza, che siano i fine settimana o le vacanze estive o quelle natalizie, sono un periodo ancora più faticoso del resto dell’anno.

Ricordo che da bambina aspettavo con ansia le vacanze, che significavano riposo, niente scuola, dormire fino a tardi, poter fare quello che più mi piaceva ovvero giocare, disegnare, guardare un po’ di televisione, leggere, mangiare a casa con mamma e papà e magari anche i nonni, che venivano spesso a trovarci.

Anche da più grande, quando andavo all’università, vacanze significava niente più lezioni da seguire, poter uscire con le amiche e il fidanzato, niente più sveglia la mattina, andare a qualche mostra o al cinema, a passeggio, insomma libertà.

E ancora più tardi, quando lavoravo, non vedevo l’ora che arrivassero le vacanze, che avevano preso il nome di ferie: niente più traffico la mattina, il capo che pretende che tu finisca il lavoro per il giorno prima rispetto quello in cui te l’ha chiesto, la collega pettegola, la segretaria precisina, tornare a casa la sera tardi e trovarsi le faccende domestiche da fare.

Quando è cambiato tutto? Quando le vacanze hanno smesso di essere un momento di libertà e riposo? Perché ora la stessa parola vacanza invece che suscitare in me gioia mi fa venire la pelle d’oca?

L’anno in cui sono rimasta incinta e sono stata, per una strana coincidenza, licenziata, le vacanze estive e natalizie avevano avuto un sapore diverso, una libertà totale: non mi dispiaceva occuparmi per un po’ solo della mia pancia che cresceva, potevo tenere la casa ordinata con calma e fare la spesa quando volevo, senza essere vincolata a quei momenti ritagliati dal lavoro. Potevo dedicarmi ai miei hobby, lavorare a maglia, fare il corredino per il bimbo in arrivo, leggere tutti quei libri che si erano accumulati sul comodino.

Poi era nato il Pupo e le vacanze ricordo che erano ancora qualcosa di magico, erano giornate da trascorrere in tre, con il marito a casa dal lavoro e tempo per stare insieme e fare qualcosa di speciale, come le vacanze dovrebbero essere, speciali.

In un momento imprecisato però, qualcosa è cambiato. Non saprei dire quando, probabilmente non c’è stato un Prima e un Dopo, ma un lento accavallarsi di cose .

Avrei voluto trovare un nuovo lavoro per interrompere quella che credevo essere solo una pausa da casalinga. Quando il piccolo ha compiuto un anno ho creduto fosse il momento giusto e ho cominciato a inviare curriculum, ma ai colloqui di lavoro i miei potenziali capi storcevano il naso a leggere “coniugata e con un figlio”. Sembrava che quelle caratteristiche pesassero più della laurea conseguita anni prima. Inoltre non ricevevo neppure un adeguato supporto morale né da mia madre né da mia suocera: entrambe sono sempre state casalinghe ed erano state contente quando ero rimasta a casa, non concepiscono l’idea che un bambino cresca con una madre assente tutto il giorno per lavoro, almeno finché non ha raggiunto la maggiore età. Con queste premesse, non mi hanno supportato molto nella mia ricerca di un nuovo lavoro. Mi lanciavano eloquenti sguardi di disapprovazione quando chiedevo loro di tenermi i bambini se avevo un colloquio, ragion per cui cercavo sempre di fissare questi incontri durante l’orario in cui i bambini erano a scuola per non dover chiedere niente a nessuno.

Nel frattempo  il Marito ed io avevamo deciso di dare un fratellino al Pupo: non avevamo dovuto aspettare a lungo la seconda cicogna e così la famiglia si era presto allargata a quattro componenti.

Il progetto di trovare un lavoro si allontanava sempre di più, due bambini erano impegnativi e io avevo trovato un mio ritmo nella vita casalinga: mi dicevo che ci avrei pensato quando sarebbero cresciuti  e sarebbero andati a scuola.

E ora eccole li le due pesti, un bimbo biondo di cinque anni e una bimba castana di due, a litigare riguardo la proprietà di un giocattolo. È tutta la mattina che strillano e mi chiamano incessantemente: avrei voluto farmi una doccia ma ancora non ci sono riuscita, non appena penso di avere cinque minuti di tregua ecco risuonare il fatidico “Mammaaaaa!” che mi richiama alla realtà. Sono riuscita a stendere un carico di lavatrice ma ancora mancano i letti da rifare e la cucina da sistemare. Volevo anche andare a fare la spesa ma l’idea di andare al supermercato con le due pesti che continuano le loro discussioni anche in pubblico non mi entusiasma: ai loro litigi si aggiungerebbero i capricci per avere le caramelle o il giocattolo o qualunque altro oggetto messo in bella mostra per attirare la loro attenzione e la mia pazienza si esaurirebbe presto. Cercherò di andarci dopo pranzo lasciando i bambini a casa con il papà.

Il marito non sembra intenzionato a intervenire nella discussione, ha chiuso la porta per non essere disturbato e a me non va di litigare, così evito di coinvolgerlo nel problema.

A volte mi dico che dovrei smettere di avere paura di disturbare gli altri: insomma, lui è il padre dei bambini, ha il diritto e il dovere di essere reso partecipe delle questioni piacevoli ma anche di quelle più spinose. Invece spesso mi ritrovo a dirmi che lui è quello che lavora, ovvero mantiene la famiglia, quindi non mi va di disturbarlo quando è a casa perché ha più diritto di me di riposarsi.

Sto cercando da dieci minuti di mettere fine alla discussione dei bambini in modo pacifico, alterno blandi ammonimenti (“Bimbo, lascia stare i capelli di tua sorella… Bimba, smetti di mordere la mano di tuo fratello…”) a proposte “Bimba, perché non vieni insieme a me sul balcone che stendiamo?  Bimbo, perché non provi quel nuovo gioco che ti ha portato zia la scorsa settimana? Bimbi perché non ci sediamo che vi leggo una soria?”

Ma niente, oggi sembra non funzionare alcun metodo e sto cominciando a perdere la pazienza.
I crampi al basso ventre da ciclo mestruale al primo giorno mi fanno sentire ancora più fatica del normale. Questa notte la bimba si è svegliata due volte piangendo, con le streghe che disturbano il suo sonno: allora alzati, vai in camera sua a consolarla, portala in bagno a fare la pipì così si sveglia un pochino e magari le streghe si allontanano e quando si riaddormenterà sognerà piuttosto gli unicorni. E nonostante il sonno notturno spesso interrotto, alle sette meno un quarto era già sveglia e pronta per iniziare la giornata, tanto che io mi domando come mai nei giorni di scuola sia necessario tirar giù i bambini dal letto con il cric perché dormirebbero fino a mezzogiorno mentre durante le vacanze hanno la sveglia interna puntata all’alba.

Un altro strillo, un’altra litigata: raggiungo il punto di rottura quando il Bimbo dà uno spintone alla sorella che cade a terra piangendo. La mia mano cala di scatto sul sedere del primogenito a dargli una sculacciata e gli strillo di non provarci mai più. Lui mi guarda mezzo arrabbiato e mezzo stupito.

Non ho mai dato uno schiaffo ai miei figli: io da piccola ne ho presi tanti da una madre che esercitava un metodo educativo un po’ vecchio stampo e non ho alcuna intenzione di ripercorrere quei passi. Ricordo ancora la sensazione di bruciore sul viso, l’umiliazione, la rabbia che mi saliva dentro e che trattenevo per non far arrabbiare ulteriormente mia madre. Lei era una donna severa, riservata e silenziosa, difficilmente esprimeva ciò che provava. Quando combinavo qualcosa di sbagliato, venivo messa in castigo senza tante spiegazioni: mi aspettavano lunghe giornate durante le quali lei non mi rivolgeva la parola e io mi sentivo invisibile.

Non voglio utilizzare quello stesso metodo, voglio usare la comunicazione: quando i miei figli sbagliano li prendo in braccio e spiego loro dove hanno commesso un errore, perché dovevano comportarsi diversamente. Mio padre mi prende in giro per questo modo morbido di allevare i figli “Se tu ti fossi comportata così, tua madre te le avrebbe date di santa ragione”. Ma io mi trovo meglio su quest’altra strada. Forse i miei bambini sono un po’ più indisciplinati di quanto fossi io da piccola, ma almeno esprimono sé stessi liberamente e senza trattenersi solo perché terrorizzati dalle conseguenze che potrebbero subire.

Nonostante il mio metodo così detto morbido, ci sono  momenti come questo in cui la sculacciata e lo strillo mi partono senza controllo: un momento in cui sono stanca e senza forze, magari ho dormito poco, ho passato un’ora a sistemare una stanza e vedo il disordine riformarsi istantaneamente come se fossi l’unica della famiglia cui importa qualcosa dello stato di salute della casa. Momenti in cui non mi sento capita né tanto meno apprezzata, parlo ai bambini ma non mi sentono, spiego ma non capiscono, chiedo ma non ottengo.

E quando lo sculaccione parte, mica lo si può far tornare indietro. E quello sguardo sorpreso di mio figlio che sembra chiedermi “cos’hai fatto” mi fa più male di qualunque altra cosa. È in quell’istante, vedendo quegli occhi, che capisco di aver oltrepassato una soglia, un limite dal quale dovremmo stare ben lontani, e dal quale bisogna tornare indietro prima di commettere qualche stupidaggine. Realizzo di aver bisogno di una pausa, di chiedere aiuto. Il lavoro di mamma non ha un cartellino da timbrare, è un lavoro 24 ore su 24 e non ci sono ferie o permessi. Ma ora ho bisogno di allontanarmi un attimo per riprendere il controllo  su me stessa.

Mi affaccio nello studio del marito e gli dico  “Faccio un salto all’alimentari, non c’è il latte per la colazione di domani”. Lui solleva lo sguardo dal portatile e mi risponde “Dai, se vuoi ci vado io”

Detesto quel modo gentile con cui lui cerca di privarmi di quei pochi minuti di libertà. Sicuramente lo fa in modo inconsapevole, non si rende conto che per me, con i bambini a casa da più di una settimana, uscire da sola anche solo cinque minuti rappresenta una boccata d’aria.

Insisto: “No, vado io, ho bisogno di uscire un attimo”.

Non mi fermo neanche ad ascoltare la risposta, mi infilo il cappotto prendo la borsa e l’ombrello e mi chiudo rapidamente la porta alle spalle. Salgo in macchina metto in moto e mi avvio verso il centro del paese con la musica a tutto volume. Cerco di fare dei profondi respiri per calmarmi e abbasso un po’ il finestrino per far entrare nell’abitacolo un po’ di aria fredda e pungente.

In realtà il latte non ci serve, era una scusa per uscire di casa, quindi supero l’alimentari e proseguo. La spia della benzina comincia a lampeggiare così mi dirigo verso il benzinaio, che si trova vicino alla stazione. Fatto il pieno alla macchina mi fermo a guardare un treno che passa in quel momento, si ferma per far scendere chi è giunto a destinazione o per far salire chi è all’inizio del suo viaggio e poi riparte.

Quella visione mi ispira, così parcheggio la macchina ed entro nella stazione. Mi dirigo verso il binario più vicino e cammino fino alla fine della banchina. Osservo i binari, si vedono le due linee grigie che diventano sempre più sottili fino a sembrare che si incontrino. Ma due rette parallele, si sa, non si incontrano mai quindi la razionalità ha la meglio sulla vista e suggerisce al cervello che la strada non finisce lì dove sembra esserci il punto di congiunzione delle due linee, ma continua. Continua per quanto ancora? E fin dove?

A casa il rumore, il disordine, gli strilli: e qui il silenzio e la promessa di una meta sconosciuta. Alle mie spalle un rumore che aumenta gradualmente mi fa voltare per scoprire un treno in arrivo. Resto ferma a osservare il primo vagone che si avvicina, mi supera e si ferma poco più avanti. Davanti a me si apre la porta. Nessuno scende, nessuno sale. Senza ragionarci  troppo su, salgo.

Resto ferma a osservarmi intorno: ci sono due giovani ragazzi seduti abbracciati che ascoltano la musica dallo stesso paio di cuffie, una per lei una per lui. Nulla li distrae, hanno gli occhi chiusi, per loro non esiste altro che sé stesso, l’altro e il sottofondo musicale.

C’è un uomo con cappello cappotto e ventiquattr’ore, che ogni tanto osserva annoiato l’orologio. Per lui questo viaggio deve essere una routine che si ripete spesso e non ha più nulla di speciale.

Io invece non ricordo quasi l’ultima volta che ho preso un treno. Ah si, è stato quattro anni fa, il Pupo era ancora piccolo e siamo andati a fare una gita dalla mattina alla sera. Mentre cerco di ricordare i dettagli di quella gita sento le porte che si chiudono alle mie spalle. Mi volto di scatto, cerco una maniglia un pulsante qualcosa per uscire e vedo il panorama che comincia lentamente a scorrere. Il treno è partito.

Ottimo, sono su un treno diretto chissà dove, senza biglietto, senza che nessuno sappia che sono qui. Cerco di non dare nell’occhio: mi metto a sedere e aspetto la prossima fermata per scendere, il treno è solo un regionale non fermerà troppo lontano, poi tornerò indietro, riprenderò la macchina e me ne tornerò a casa.

Guardo un po’ fuori dal finestrino, poi mi guardo intorno a osservare gli altri passeggeri. Vedo due ragazze eleganti che parlano fitto, sembrano molto amiche, si guardano negli occhi, si alternano nella conversazione a ritmo perfetto, senza mai accavallarsi. Sorridono, sembrano complici, trasudano empatia reciproca.

Le amicizie, che tasto dolente. La mia migliore amica vive a chilometri di distanza e le amiche che vivono più vicino riesco a frequentarle poco ultimamente. Loro sono sempre impegnate con il lavoro e durante il week end approfittano per fare ciò che non hanno il tempo di fare durante la settimana, quindi stanno con i fidanzati o i mariti, con la famiglia, escono, viaggiano. Non mancano a volte delle frecciatine tipo “Beata te che hai così tanto tempo libero durante la settimana” quando cerco di inserirmi nei loro impegni il sabato o la domenica. Non lo fanno apposta, ma mi fanno pesare la mia condizione di mamma a tempo pieno.

Come se avessi bisogno del loro giudizio per sentirmi inadeguata. Ci sono giornate in cui arrivo a sera e mi domando: cosa ho fatto oggi? Ho fatto la spesa, ho lavato i pavimenti, sono andata a prendere i bambini a scuola, li ho portati in piscina, ho preparato la cena et voilà, la giornata è finita. Dov’è il mio contributo al mondo? In che modo contribuisco al sostentamento della famiglia? So che tutto ciò che faccio è importante ma mi sembra che mi manchi qualcosa, non mi sento pienamente realizzata. Poi mi chiedo: sono veramente io a non sentirmi realizzata oppure ho fatto mio il pensiero degli altri?

Nessuna delle mie amiche vive la mia stessa condizione, per avere un confronto su queste sensazioni devo rivolgermi ai social network e fare due chiacchiere con persone dei quali leggo i blog. Ben diverso da una conoscenza reale, più tangibile, fatta di sguardi, di un caffè preso insieme. Ma anche meglio di niente, quanto meno non mi sento una pecora nera in un mondo di donne lavorativamente realizzate.

Questi miei pensieri vengono interrotti da una voce che annuncia l’arrivo alla stazione.

Scendo dal treno e mi dirigo verso la biglietteria per acquistare il biglietto per il ritorno: se credevo sarebbe stata una cosa rapida mi devo ricredere dal momento che la trovo chiusa. Bene, ora devo decidere se riprendere il treno senza biglietto o aspettare la mezz’ora che manca alla riapertura.

Mezz’ora più, mezz’ora meno, a questo punto allungo un po’ la gita improvvisata ed esco dalla stazione. Passeggio lungo il marciapiede, nel frattempo ha smesso di piovere e mi godo il semplice gesto di poter camminare senza dover dedicare attenzione a dove sono i bambini. Sia chiaro, io adoro le mie piccole pesti, non potrei immaginare la mia vita senza di loro: ma devo ammettere che ogni tanto è salutare allontanarsi un po’ dal ruolo di mamma e riscoprire la solitudine. Ultimamente la mia attenzione è quotidianamente assorbita dai bambini: non mi concedo mai un momento in solitudine né con mio marito. Ho sempre quella paura di disturbare gli altri, magari mio padre chiedendogli di stare con i nipoti una sera mentre mio marito ed io andiamo a cena fuori da soli, o addirittura chiamando una babysitter.

Arrivo a un bivio dove un cartello attira la mia attenzione, con la scritta “La casa delle donne che corrono con i lupi” e una freccia. Non so perché, questa immagine mi ispira, così volgo lo sguardo nella direzione indicata dalla freccia. La casa delle donne che corrono con i lupi. La casa, quindi un rifugio. Delle donne, quindi un universo femminile. Corrono, non camminano, non si riposano, non stanno ferme: loro corrono, sprigionano energia. E non corrono da sole, non corrono come chi lo fa per sport. Loro corrono con i lupi, è energia selvatica in movimento.

Imbocco la stradina seguendo le indicazioni del cartello. Percorro una strada alberata, in leggera salita, fino a raggiungere un cancello con all’esterno lo stesso cartello. Mi fermo a fissarlo chiedendomi cosa ci sia al di là. Una voce mi domanda “Posso aiutarti?” Mi giro: una signora sulla cinquantina, capelli brizzolati al naturale, corti e un po’ scompigliati mi osserva con un sorriso gentile.

“No grazie” mi affretto a rispondere. Non so nemmeno io bene cosa ci faccio qui, tanto meno lo saprei spiegare a una sconosciuta. Mi giro per andarmene, poi mi fermo. Qualcosa mi trattiene, questo incontro casuale mi incuriosisce. Mi volto di nuovo verso la signora, che mi sta ancora guardando, sempre sorridente.

FINE PRIMA PARTE

 

h1

Un Racconto

30 gennaio 2016

A proposito di multipotenzialità, dopo aver sperimentato la pittura, il cucito, il lavoro a maglia, all’uncinetto, il legno, il feltro… ho provato a prendere in più seria considerazione la scrittura: tra i progetti che voglio portare a termine a breve c’è la pubblicazione (tramite self publishing) di un paio di lavori che devo mettere a punto. Nel frattempo sono stata tentata da una amica a inviare qualcosa a un concorso letterario.”
Ho quindi deciso di inviare un racconto al concorso “Il Racconto nel Cassetto”.

Banner-ali-generale

Ciò che avevo già scritto aveva una lunghezza eccessiva per poter partecipare a questo concorso, così ho buttato giù qualcosa di nuovo; tratto da una idea balenatami in mente un paio di anni fa, messo sulla carta solo ora.

Indipendentemente dall’esito di questo concorso, sono soddisfatta dall’aver portato a compimento questo mini-progetto. A breve condividerò anche qui il racconto, nel frattempo mi dirigo verso nuove avventure!